Evocazione della pittura e corpo plastico.
Note per Antonio Ambrosino
Massimo Bignardi
Una certa irrequietezza stilistica, scrivevo nel testo al catalogo della recente mostra allestita a Cortina d’Ampezzo, è il dato che emerge dalle esperienze creative di Antonio Ambrosino realizzate in quest’ultimo decennio. Sia chiaro, non mi riferisco alle pratiche con le quali l’artista approccia il vitalismo del suo immaginario, quanto al fondamento che sostiene la sua necessità di costruire un dialogo con la propria identità esistenziale. Parafrasando quanto Calvino scriveva per la letteratura, possiamo dire che per Ambrosino l’esperienza dell’arte è, innanzi tutto, astrazione e formalizzazione. Mi spiego: il processo di contatto con il mondo, dunque con quella che comunemente chiamiamo realtà, avviene per l’artista attraverso il filtro dell’astrazione, generalmente tendente a scoprire la vitalità del segno che, nella dimensione pittorica quindi d’immagine legata ad uno “spazio”, appartiene alla percezione visiva. Di qui il suo costante riferimento ad immagini cariche di un analogismo che sfiora il ready-made, cioè di pitture già fatte, pronte per l’“uso”, ovvero quelle che l’artista osserva nelle frequenti e continue perlustrazioni messe in campo dalla visione.
Evocare la pittura
La serie di stampe fotografiche montate su alluminio Dibond, dal titolo Naturalmente sguardi avviata negli ultimi sei anni, in pratica dal 2011, si afferma proprio come processo di una consapevole e raggiunta astrazione, ove ai motivi di un segno che circolarmente si chiude su se stesso, fa riscontro una prefigurazione immaginifica di un “occhio” della natura – nella sua molteplicità di varianti – che vede, osserva, o meglio dal quale l’artista si sente osservato. Sono sguardi “trasversali” fra loro che s’incrociano su traiettorie dettate dall’emotività contenuta in una frazione minima di tempo, fino a quando la riflessione carpisce la realtà, il realismo proprio di queste immagini. Esse, altresì, dichiarano l’attenzione ai processi dell’osservare, cioè alla capacità che l’occhio ha di rivelare gli “sguardi” che la natura rivolge al mondo dell’esistenza, consentendoci di entrare nei processi dei cambiamenti, delle metamorfosi. Ambrosino, partendo dal piano della pittura – perché le opere che danno vita al ciclo Naturalmente sguardi, sono in fondo concepite come pittura densamente colorata – sembra aver fatto suo il pensiero di Ferdinando Scianna in merito al processo e ai gesti che compie il fotografo con i quali «sceglie un pezzo di mondo, un pezzo di esperienza e decide in quale istante registrarne la traccia». Una scelta fondata sull’assunto che «i processi cerebrali che hanno a che fare con le immagini sono determinanti per lo sviluppo della coscienza e dell’identità stessa».
Ma la ricordata irrequietezza stilistica di Ambrosino fa registrare, a fianco e parallela alla prospettiva di un processo di astrazione, una evidente tendenza alla formalizzazione: un dato che si palesa nelle sue esperienze plastiche, ossia quando dialoga con la materia, controllandola o, se si vuole, piegandola al sentimento della manipolazione. La capacità, cioè, di gestire i processi del “dar forma” (formare) che Antonio porta con sé, come riconoscibile cifra personale, sin dai primi anni del Duemila quando è stato mio studente all’Accademia di Belle Arti di Napoli. I tre cicli di opere proposti in mostra seguono tempi narrativi diversi: si parte da Frammenti di tempo, avviati nel 2003 ed oggi ancora negli interessi dell’artista; vi è poi Attimi un ciclo di sculture che richiama il dettato formale dei frammenti, in particolare per quanto riguarda la gestione del segno che sembra ricordare quello dinamico adottato da Amerigo Tot per le formelle a bassorilievo con “ventagli” a spirali, proposti, tra l’altro, nel controsoffitto della Sala della Vittoria (1959) del Palazzo della Farnesina a Roma o riscontrabili in Rilievi, una scultura per la sede del Ministero delle Politiche Agricole a Roma; infine chiude il ciclo di sculture Metamorphoseon, forme condizionate, opere realizzate di recente in varie dimensioni con le quali l’artista pone attenzione al mondo della materia e delle forme. Lavori che, dal loro apparire, lo guidano, come sostiene, «alla cosciente consapevolezza dell’arte, di spingersi ad immaginare rigorose geometrie che sono il segno (cioè la testimonianza) del mio passaggio». La prima e la seconda serie sono sculture in legno, terracotta e resina realizzate tra il 2003 ed il 2016, in cui l’artista osserva con attenzione l’ambiente in cui vive, lo spazio che lo circonda, cogliendone le caratteristiche, le trasformazioni, le sollecitazioni che lo spingono verso quell’intrigante e complessa rete di relazioni che dal particolare rinviano all’universale.
Il dato che tiene insieme questi tre momenti che segnalano l’interesse del giovane artista campano per la scultura, è l’idea che sostiene il progetto del “formare”: Ambrosino fa suo, aggiornandone le prospettive, il valore che gli astrattisti concretisti napoletani, all’alba degli anni Cinquanta diedero a tale termine. «Formare» si leggeva nel testo a mo’ di manifesto apparso nel gennaio del 1954 «è un impegno morale di partecipazione alla realtà, esprime la coscienza d’essere nella realtà, è agire.» Dapprima con i Frammenti ed infine con Metamorphoseon la plastica di Ambrosino si fa esercizio dell’agire come esperienza dell’“essere” nel proprio tempo. Riprendendo nuovamente quanto avanzato da Calvino nell’intervista rilasciata a Madeleine Santschi nel 1967, si può affermare che egli spinge a porre in rapporto la realtà con i segni con cui la rappresentiamo. È questo il punto di convergenza sul quale ruota la mobile gestione dello suo stile, contraddistinguendo, nel loro complesso, le opere qui proposte.
Luogo e corpo plastico
Del rapporto tra segni, luogo e corpo, ossia una riflessione sulla dimensione ambientale nel quale è calato il nostro essere, ne ha dato conto la grande (1200x500x140 cm) installazione In that time, too many lions will have the heart of the donkey, realizzata il 2016 nello spazio del progetto “Vesica” per il Das Fürstliche Gartenfest allo Schloss Fasanerie di Fulda in Germania: invito pervenuto su segnalazione di Lucio Izzo, al tempo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Colonia. È un intervento site spicific (effimero e temporaneo), fortemente centrato sul simbolico, ove la ‘figura’ magico-rituale del rosario (ma anche del tasbeeh musulmano) diviene l’elemento che struttura l’intero spazio sul quale l’artista ha lavorato servendosi di 59 pneumatici con cerchioni, di resine, di poliespanso, di lunghi e doppi tubi di gomma e di altri materiali. «Il progetto – mi scrive Ambrosino nel corso della sua elaborazione, coincisa con il periodo nel quale eravamo impegnati alla redazione del catalogo della citata mostra di Cortina d’Ampezzo – nasce da un’attenta riflessione sul mio essere italiano ed è stato suggerito dal significato originario della Vesica, simbolo di Cristo. Non nascondo di esser stato suggestionato dalle parole pronunciate dal Beato Papa Giovanni Paolo II in un discorso tenuto a Fulda, nel novembre del 1980. Ad un gruppo di cattolici che gli chiedevano perché nel 1960 non era stato pubblicato il ‘terzo’ segreto di Fatima, rispose: “Può essere sufficiente ai cristiani sapere questo: se vi è un messaggio in cui sta scritto che gli oceani inonderanno intere parti della terra, che da un momento all’altro periranno milioni di uomini, non è davvero più il caso di bramare tanto la divulgazione di un tale messaggio segreto …”. E, mostrando la corona del rosario, concluse: “Ecco il rimedio contro questo male. Pregate, pregate; affidate tutto il resto alla Madre di Dio”. Riflessioni sulla ‘figura’ del rosario assunto come elemento chiave dell’installazione: esso è caratterizzato da una croce di chiusura generata dalla criniera di una testa di leone presente all’incrocio dei bracci, a richiamare una profezia della mistica tedesca Teresa Neumann, che previde: “In quel tempo, troppi leoni avranno il cuore dell’asino”, frase che ho assunto come titolo dell’opera». Indubbiamente il sistema simbolico dal quale l’artista deriva l’idea della forma-oggetto della grande installazione, è quello nel quale si è formato. È ben noto che nell’area napoletana e, più estesamente, nel territorio campano il simbolo-oggetto svolge una particolare azione sia nella sfera ‘religiosa’, sia in quella magico-apotropaica. Antonio ha tentato di separare il livello della realtà fisica da quella sociale: se da un lato insiste sulla forma che corre mobile lungo i passaggi tra le aiuole, ordinando e cadenzando le ‘pause’ delle venti decine, ossia i venti “Misteri” riordinati proprio da Giovanni Paolo II, chiudendo il cerchio con il medaglione con l’effige del ‘leone’, dall’altro si muove sulla natura, anch’essa simbolica del giardino. Un luogo, quest’ultimo ove l’uomo ritrova la dimensione spirituale della natura: luogo del pensiero e dello spirito.
A proposito dell’oggetto simbolico, Marc Augé sostiene che «è unico, ma possiede, congiunge e condensa le due dimensioni che il linguaggio dell’osservatore è costretto a distinguere». Alla forma, nella sua dimensione tridimensionale, nella sua dimensione terrena, Ambrosino affianca l’esperienza dello sguardo spinto negli ingrandimenti della realtà; uno sguardo di pura astrazione, per avviare la fantasia dello spettatore verso nuovi confini della propria immaginazione, nei territori dello spirituale.